ZERO

ideazione, testi, coreografia  Paola Bianchi
consulenza artistica  Silvia Parlagreco
in scena  Paola Bianchi e Giuseppe Tordi
elaborazione suono  Paola Bianchi, Fabio Barovero
disegno luci  Paolo Pollo Rodighiero
grazie a  Ivan Fantini, Valerio Valoriani, Roberta Failla, Movimento Centrale, 
Settore Cultura Comune di Rimini

produzione FC@PIN.D’OC
in collaborazione con Cricoteka – Centro di documentazione dell’arte di T.Kantor - Cracovia | Consolato Generale della Repubblica di Polonia in Milano | Teatro Verdi - Milano | Versiliadanza/Teatro Cantiere Florida di Firenze nell’ambito del Progetto a Sostegno delle Residenze Artistiche in Toscana | Santarcangelo Festival Internazionale del Teatro in Piazza | AGAR
con il contributo di Mibact e Regione Sicilia


                                                                                                                                                   ph. Paolo Pollo Rodighiero


Una visione sui corpi del teatro di Tadeusz Kantor.

Movimenti rotti in corpi  d i s o r i e n t a t i, persi nello spazio scenico alla ricerca di un luogo a loro consono mai raggiunto. Una  i n q u i e t u d i n e  costante e persistente. È come se i corpi del teatro di Kantor non trovassero mai il posto giusto, non si sentissero mai a casa. 
ZERO è costruito su una partitura sonora frutto del montaggio delle pause, dei respiri tra una parola e l’altra di Kantor – parole pesate, studiate, mai a caso – momenti di un niente carico di senso tratti dalle registrazioni provenienti dall’archivio sonoro della Cricoteka di Cracovia. 
Quei silenzi ricchi di peso diventano traccia drammaturgica, un non detto che non saprei come dire se non con  il corpo.  Un  percorso  tra  quei  silenzi  e  quei  corpi,   in  una  terra  di  mezzo  che  sconfina  nel  c o r p o  in  a z i o n e. Un corpo fuori contesto, lontano da una storia, che rifugge un senso logico per rimettersi alla legge che nasce dal nostro stare uno di fronte all’altro - corpo dell’azione e corpo della visione che vivono uno stesso indiscutibile destino: la fine. 
Un omaggio ai corpi che hanno attraversato il teatro di Tadeusz Kantor.




NOTE A MARGINE

Da molti anni la figura di Tadeusz Kantor si insinua a tratti nel mio percorso. Il lungo lavoro di studio e di ricerca è sfociato nel mese di aprile 2015 con la realizzazione dei cinque radiodocumentari Tadeusz Kantor: il circo della vita tra memorie e fantocci, prodotti dall’associazione culturale Agar in collaborazione con l’Istituto Polacco di Roma, la Cricoteka di Cracovia e Polskie Radio e andati in onda su Rai Radio 3 in occasione del centenario della nascita di Kantor. I radiodocumentari, realizzati insieme a Silvia Parlagreco – studiosa italiana di Kantor - fanno rivivere le messe in scene dei principali spettacoli dell’autore attraverso un racconto fatto di suoni e parole; nell’ascoltatore balzano evidenti le immagini, e le scene degli spettacoli riacquistano tutta la loro forza.
La creazione di ZERO è stata la naturale conseguenza di questa ricerca approfondita. In particolare mi sono concentrata sull’uso dello spazio e sui corpi del suo teatro, li ho analizzati, sezionati, li ho estrapolati dal contesto degli spettacoli, li ho vissuti e trasformati nel mio corpo. 
ZERO non è uno spettacolo su Tadeusz Kantor o sul suo lavoro e, pur essendo denso di riferimenti alla sua opera, non è neanche un omaggio a Tadeusz Kantor. ZERO è un dialogo con i corpi del suo teatro, corpi estrapolati dalla scena, corpi che hanno attratto il mio sguardo; corpi veri e corpi disegnati che nella mia personale visione vivono avulsi dal contesto. Dare nuova vita a quei corpi può essere un modo per guardare all’opera di Kantor da un altro punto di vista, forse modificando/attualizzando il nostro sguardo sulla sua opera. 

LE FIGURE UMANE
Scavando in profondità sono giunta ai disegni delle figure umane di Tadeusz Kantor, metabolizzando la tensione muscolare che li attraversa; figure umane perse nel foglio bianco, in quel non-luogo che ricorda la scena. La mia indagine si è poi spostata sul contesto culturale/pittorico che Kantor ha vissuto, lavorando sui quadri di Matejko, Bruno Schulz, Malczewski, Wojtkiewicz. Una pittura lontana dalla ricerca pittorica di Kantor e per questo ancora più importante. A partire da quei quadri, da quei colori, dalle tensioni interne ai corpi ho elaborato una mia strada che mi ha condotta a lavorare sul vuoto interno, sulla morte e sulla vita. ZERO è quindi un percorso a ritroso sull’opera di Kantor, un percorso che si chiude sul mio corpo e su quello di Giuseppe Tordi che con me condivide la scena. Giuseppe non è un danzatore e potrei dire che il suo stare, il suo essere lì, è il necessario contrappeso al mio continuo entrare e uscire dal dramma.
I corpi che attraversano il mio corpo, deformandolo e sconquassandolo, sono liberi dalla logica drammaturgica temporale in cui erano immersi. Sono corpi autonomi che in quanto tali ho lasciato fluire senza cercare una connessione tra loro. Ho partorito quei corpi con il mio corpo senza chiedermi chi fosse il padre e li ho lasciati liberi di percorrere quel piccolo spazio che è la scena imponendomi di non dare loro una sequenza logico-drammatica. Li ho vissuti in libertà e così li vivo a ogni replica, ognuno con la propria piccola storia indipendente dalla mia volontà. La partitura è estremamente definita, forse più che negli altri miei lavori, ma il processo creativo è fluito leggero, passando attraverso quell’esercizio quotidiano di sguardo che è proprio del mio lavoro di coreografa.

IL SUONO
Kantor scriveva molto e spesso registrava in voce i propri scritti. La raccolta delle sue registrazioni si trova presso l’archivio sonoro della Cricoteka di Cracovia dove per un periodo mi è stata concessa una postazione di lavoro. Lì ho estrapolato da quelle registrazioni tutto il “non detto” da Kantor, i suoi respiri tra una parola e l’altra, i suoni dell’ambiente, i rumori dell’accensione e dello spegnimento del registratore stesso. Quel niente interposto tra una parola e l’altra è diventato traccia sonora, partitura drammaturgica, un niente carico di senso proprio perché preceduto o seguito dalle parole di Kantor - parole sempre calibrate, pesate e pensate. 




DALL'AZIONE ALLA ZATTERA 
          uno scarno abbecedario 

Guardando e riguardando i video degli spettacoli di Tadeusz Kantor per realizzare i 5 radiodocumentari sulla sua opera teatrale, ho iniziato ad attribuire aggettivi ai corpi che abitano quel teatro. Ne è nato così uno scarno abbecedario: 
Arcaico | Balbuziente | Circolare | Disorientato | Endocrino | Foriero | Grottesco | Inquieto | Liminare | Muscolare | Nientificato | Oltraggioso | Poetico | Qualunque | Risonante | Sparigliato | Tautologico | Urlante | Virtuoso | Zittito 
Poi però gli aggettivi sono esplosi, i primi come calamite ne hanno attirati altri. 
Azione e zattera non sono evidentemente aggettivi e non sono in realtà compresi in questo scarno abbecedario. L’azione e la zattera sono due parole care a Kantor ed è da queste due parole che è nato il mio ragionamento intorno ai corpi del suo teatro. 

Quelli che abitano il teatro di Kantor sono corpi arcaici, primitivi, corpi veri nella finzione della scena. Potrei dire corpi primordiali, radicati da sempre nella natura umana. È come se il loro modo di stare di fronte a noi fosse avulso dalla storia, pur essendovi completamente immersi. Sono corpi universali. Il loro stare lì può essere decontestualizzato dalla scena e quei corpi diventano i nostri, i corpi dello spettatore, di chi assiste a quei movimenti muscolari, movimenti balbuzienti, rotti dal peso della storia. È evidente una alterazione del flusso dei movimenti, in forma di blocchi, di ripetizioni delle azioni, di spasmi. Il movimento risulta periodicamente esitante, interrotto, tronco, abbondante di ripetizioni, di inceppamenti. Movimenti circolari che tornano al punto di partenza a volte trasformati a volte identici a quell’inizio. Circolari come lo spazio che viene segnato da girotondi tanto cari al teatro del novecento. Sono cerchi che a volte non si chiudono, cerchi che espongono a loro volta la circolarità delle azioni di coloro che agiscono, dei loro movimenti ripetuti in coro – un corpo fatto di tante voci diverse che per farsi udire singolarmente necessita della moltitudine, della folla, dei tanti. Sono singoli insieme a molti
In questa moltitudine di corpi il disorientamento balza all’occhio. Disorientamento dei corpi, delle posture. Corpi disorientati nello spazio ristretto dell’azione. Un disorientamento patologico, la mancanza di orientamento nel tempo e nello spazio e verso la propria persona. Non sembrano aver perso l’orientamento, sono proprio così, disorientati da sempre, si potrebbe quasi dire ‘fuori luogo’. Sebbene disorientati questi corpi seguono traiettorie precise nello spazio, ma lo fanno con quel senso di smarrimento, di perdita di connessione con la realtà che dona loro la fatica a noi necessaria per comprendere la loro stessa perdita di orientamento. A volte sembrano affetti da presbiofrenia con confabulazioni ed eccitamento motorio. Un eccitamento che si autoalimenta che si sviluppa internamente, che non risulta appiccicato, buttato su chi agisce, ma che potrei definire endocrino, pensando all’origine della parola stessa: endo – dentro, crino – verso, quindi verso l’interno ma che dall’interno traspare, esponendo cioè questo interno.
Sono corpi che annunciano, forieri di avvenimenti, di mutazioni della scena, che preannunciano avvenimenti, e loro stessi si trasformano fino a diventare grotteschi, goffi, innaturali, corpi che scatenano risa e pianto, risa amare, risa in contrasto con la drammaticità della situazione. Corpi in una situazione di squilibrio rispetto al contesto in cui agiscono, corpi turbati dall’intorno, dal luogo in cui stanno, corpi inquieti che si perdono nello spazio del dentro e del fuori, nella scena visibile e in quella invisibile, in quel dietro, in quel oltre, nel passaggio tra il dentro e il fuori, liminari, sulla soglia, sul confine. 
Sono corpi muscolari, sempre in azione, il loro stato evidenziato dai muscoli in tensione o in stasi si manifesta con forza. Eppure sono corpi nientificati, annullati - per usare un termine kantoriano tanto caro al periodo del teatro ZERO. Se Kantor parlava di annullamento del testo io mi sento di dire che in alcune situazioni è il corpo a essere annullato, nientificato, costretto in azioni illogiche, azzerato dalla propria stessa azione per dare risalto all’azione teatrale pura. Sono corpi che mostrano la loro piccolezza, la loro nullità.
Sono corpi oltraggiosi, eccessivi che offendono se stessi, sono corpi che sfidano il potere, che incorporano il potere e per un breve lasso di tempo lo soverchiano, ce l’hanno in pugno. Eppure sono corpi poetici, corpi che creano in noi emozioni, corpi che ci portano in altri luoghi, lontani da lì, da dove stiamo guardando, lontani da quello che stiamo guardando. Bisogna essere in grado di concentrarsi sul corpo, scontornarlo dall’intorno, dalla scena. So che può essere considerata un’operazione assurda, forse blasfema trattandosi di un regista teatrale, di un artista totale che quindi curava con estrema attenzione il particolare e il totale al tempo stesso, che può sembrare quasi fargli torto, ma al contrario per me è renderlo ancora più grande di quello che è stato dal punto di vista artistico. In questa cura dei corpi singoli io ci vedo una delle grandi innovazioni del teatro del novecento. 
Sono corpi qualunque, corpi di tutti, potremmo essere noi seduti lì tra i banchi della classe scolastica. Corpi normali e potenti al tempo stesso. Non sono corpi di danzatori, lavorati e cesellati, sono corpi dell’intorno, del nostro vicino di poltrona, di nostro padre, dei nostri fratelli e sorelle – siamo noi quei corpi che risuonano, che rimbombano nella scena; corpi risonanti, sonori, che riecheggiano nella nostra memoria, come l’immagine che segue


Una immagine che non riesco a dimenticare, che è stata il punto di partenza di ZERO. Difficile dire cosa mi ha colpito di quel movimento, di quel corpo così magro e instabile ma ben ancorato al pavimento, forse il suo essere sparigliato, il suo essere solo in mezzo a molti. Il movimento leggero delle gambe, il movimento delle braccia: vedo il movimento fuori da quello spazio angusto, vedo i muscoli, vedo lo scheletro, vedo il corpo tutto che mi parla di leggera fatica della solitudine.
Nell’elenco di aggettivi compare anche tautologico e qualcuno potrebbe contrariarsi per il suo significato comunemente inteso, ovvero di ragionamento, frase, espressione che sostanzialmente non aggiunge nulla a ciò che è già stato detto ma che ripete lo stesso concetto con altri termini. Io invece intendo il termine derivante dalla logica matematica dove la tautologia, detta anche verità logica, è un espressione che risulta sempre vera, qualunque siano i valori di verità assegnati alle variabili. Quindi, nella mia visione, tautologico è quel corpo che risulta vero anche estrapolato dal suo spazio, inserito in altro contesto, che resta sempre vero anche quando le variabili cambiano. Vero e urlante, ma mai il suo urlo è una richiesta d’aiuto. Urla perché la sua voce è così, forte, è voce potente. È corpo virtuoso, ovvero in grado di produrre effetti particolari, e non tanto nel senso di estremamente abile ed esperto. Nell’aggettivo da me usato il virtuosismo non è di casa. Quei corpi zittiti dalla morte di Tadeusz Kantor, sono ora vivi nella mia memoria e tanto basta.