CORPO POLITICO

distopia del gesto
utopia del movimento

di paola bianchi
a cura di Silvia Bottiroli e Silvia Parlagreco 
Editoria & Spettacolo _ 2013
collana Spaesamenti a cura di Paolo Ruffini
finito di stampare: marzo 2014

Scrivere questo libro è stato come fare chiarezza e allo stesso tempo instillare nuovi dubbi intorno ad alcuni nodi relativi alla danza e al mio lavoro. Il titolo rispecchia il mio modo di affrontare le questioni che riguardano il mondo: CORPO, perché è attraverso di esso che si esprime e realizza il mio stare qui, il mio fare; POLITICO perché il corpo è la cosa della politica, perché è attraverso il corpo, l’io-corpo che si incide sulla vita pubblica, e un corpo sulla scena non può che essere politico. Ed è lo slittamento della posizione del gesto, l’esposizione del suo lato peggiore, la realizzazione del tanto temuto disfarsi della solidità del nostro stare che fanno nascere il forte desiderio di un movimento che ridia voce al silenzio. 
paola bianchi


Completano il libro le foto di scena, le mappe drammaturgiche e le schede degli spettacoli di paola bianchi, oltre ai preziosi contributi di quanti hanno regalato pensieri, parole e immagini.

In copertina foto di Valentina Bianchi.
Contributi di Katjuscia Fantini, Angela Fumarola, Elisa Gandini, Erri De Luca, Roberto Mastai, Claudio Angelini, Massimo Schiavoni, Barbara Klein, Paolo Pollo Rodighiero, Szymon Bojko, Fabio Barovero, Lucio Spaziante, Anna Lea Antolini, Sandro Pascucci, Laura Gemini, Constanza Macras, Ivan Fantini.
Traduzioni di Francesca Divano, Federico Dalpiaz e Beata Dudek.
Foto di Valentina Bianchi, Enrico De Luigi, Paolo Rapalino, Paolo Pollo Rodighiero, Alessandro Zijno, Claudio Martinez, Maurizio Roatta, Sandro Carnino, Federica Giorgetti.
Postfazione di Paolo Ruffini.



POST SCRIPTUM di Paolo Ruffini

L’estraneo e l’ignoto affascinano la mente umana, e la spingono a colmare le lacune della conoscenza con la proiezione, cioè con i prodotti dell’immaginazione, troppo facilmente accettati da tutti come fatti reali.
Georges Devereux

È affermato più volte in questo volume che l’indagine che si propone è intorno, attraverso e all’interno della prassi e del pensiero di una autrice della danza contemporanea a suo modo anomala, cercando di riportarne su pagina il senso di un percorso differente rispetto al panorama italiano. Non tanto per la sua esposizione pubblica dei lavori, comunque prodromi di un’attitudine espressiva chiasmatica che pure sembrano aderire a un quadrante nordeuropeo piuttosto che mediterraneo, ma invece per una “ostinata” verbalizzazione che aggancia e fa propri altri statuti linguistici che vanno a definire quello stesso lavoro per la scena (o per la performance) da una angolatura drammaturgica tutta nel segno della micro partitura del gesto, e che a sua volta ne diviene il segno. Per sé o per i suoi interpreti, l’autrice vuole trattare la materia senza escluderne le derive, i presupposti o le proiezioni che vanno a configurarsi, il prisma della visione di chi guarda e le sfaccettature degli incarnati di chi agisce, «in una situazione in cui ciascuno è simultaneamente osservatore per sé e soggetto per l’altro»,che in questo creare per inclusioni (benché il suo gesto coreografico mantenga austero e sintetico il tratto) amplifica quel senso (appunto) relazionale della presentazione, determinando così le motivazioni e il “racconto” per mezzo del corpo. Come scrive Gabriel Markus, qualsiasi cosa esista, esiste in un campo di senso, un certo raggiungimento della verità che è oggettiva per il soggetto che la enuncia e che si propone di renderla condivisa agli astanti, nel momento stesso in cui si espone. Dunque, la verità del corpo di Paola Bianchi ritengo sia nella reazione, nel diritto di replica nei confronti della cultura che abita, obliando una visione separata fra io e mondo, un ipocorpo cosiddetto, d’altronde, dialetticamente organico all’azione che sta compiendo e che ci separa dalle sovrastrutture del suffisso iper lungamente immortalato fino a qualche tempo fa; un ipo della volontà, pertanto, di esigere un peso rispetto all’astrazione, dalla quale la coreografa prende le distanze da subito, già prima della attuale versione neoidentitaria del branding paola bianchi. Quando cioè raccoglieva quel insieme di stampo spinoziano dell’emancipazione del soggetto nella sintesi fra corpo e pensiero (mente), regalandosi già in FLATUS, UN CANTO DA una scrittura significante. Ogni suo lavoro scenico ha mantenuto la costante di una resistenza all’ovvio, anche laddove la contingenza tematica, per esempio lo spettacolo al maschile di CORPUS HOMINI, poteva rischiare una scappatoia di maniera; ebbene, la costante è la materia fisica dei danzatori che si costruisce fondamentalmente fuori dal modello della rappresentazione privilegiando invece la chiave interpretativa del conflitto, la condizione di un corpo politico come viene qui raccontato che tanto ricorda la tensione culturale del visivo nella coreografa e danzatrice Yasmeen Godder. Ma è di paola bianchi quello che Okwui Enwezor chiamalo spazio negoziato della visione, ovvero «quel territorio intermedio tra l’opera e l’osservatore nel quale viene messo in scena l’incontro (a volte lo scontro) tra la ricerca dell’artista e la rilettura, la reinterpretazione dell’opera da parte dell’osservatore». Questa è per me un’altra costante nel lavoro di paola bianchi, che identifico in una qualità temporale figlia di una condizione spaziale che mette sotto osservazione una certa fisicità che allena culturalmente gli occhi, anzi parcellizza il corpo proposto sulla scena aprendosi in questo modo a più punti di vista. Sebbene l’efficace “didascalia” che Alessandro Pontremoli addiziona alla sua storia della danza permetta di raccordare al “sistema danza” stesso una verbalizzazione allargata di significati, quando dice: «Il gesto coreutico è solo apparentemente un fare che rimanda direttamente a sé, in realtà trova la sua più corretta collocazione all’interno dell’orizzonte del discorso costituendosi come un dire, come una scrittura, anche nel caso delle manifestazioni che programmaticamente non intendono mediare alcun contenuto»; ancorché mi preme ricordare, a tal proposito, come paola bianchi abbia scelto di dire, parafrasando Wittgenstein, che a un certo punto le spiegazioni hanno termine, l’ellissi del “racconto” si esaurisce, l’incarnato (figlio di Samuel Beckett) parla. Con la gravità di Francis Bacon in TRIPTYCHOS, nella deformazione motoria in FK, nell’ossimoro linguistico del sorprendente WITHOUT.